Battaglie In Sintesi
458 o 457 a.C.
Personaggio di grande rilievo nella galleria esemplare delle virtù repubblicane, è celebrato dalla tradizione come il " triumphalis agricola ", modello di schiva grandezza, che nonostante i suoi meriti di cittadino eminente coltiva da solo il campicello di quattro iugeri cui ritorna dopo aver deposto spontaneamente la dittatura.
La vicenda di Cincinnato è interpretata dagli scrittori secondo una duplice prospettiva moralistica. Livio evoca soprattutto il momento in cui i legati che gli annunciano la nomina a dittatore sorprendono l'eroe al lavoro nel suo campo; ciò che, secondo lo storico, suona ammonimento per quanti "omnia prae divitiis humana spernunt neque honori magno locum neque virtuti putant esse, nisi ubi effuse affluant opes" (III XXVI 7). Fissata in tal senso la significazione morale dell'episodio, non ha particolare rilievo il ritorno di Cincinnato alla vita semplice; che difatti, accennato appena da Livio con le parole "dictatura in sex menses accepta se abdicavit" (III XXIX 7), è taciuto affatto da altre fonti (per es. Cicerone Fin. II IV 12 e Senect. XVI 56; Persio Sat. I 73 ss.). Presso altri storici, generalmente più tardi, questo motivo accessorio acquista uno sviluppo maggiore e Cincinnato vive il suo atto esemplare piuttosto quando rinuncia al potere assoluto e ritorna ai buoi e all'aratro (Floro I V 14; Agost. Civ. V 18; Orosio Hist. II XII 8). Le due linee interpretative si riflettono nei ricordi danteschi del personaggio.
Più generica è l'allusione alla vittoria di Cincinnato sugli Equi e sui Volsci di Pd VI 46-47, dove è da notare la perifrasi Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato (il Mariotti ha notato che cincinnatus vale semplicemente " ricciuto "). In Pd XV 129, invece, l'accenno a Cincinnato, pur rapidissimo, adduce accanto a Cornelia l'eroe nella pienezza della sua esemplarità di cittadino all'antica, semplice e grande, contrapposto al moderno faccendiere Lapo Saltarelli, e sottintende l'ammonimento liviano riferito più sopra. In Cv IV V 15 e in Mn Il V 9 prevale l'exemplum libere deponendi dignitatem. L'utilizzazione contestuale dell'exemplum è peraltro alquanto diversa nei due luoghi. Nel primo, probabilmente in antitesi alla severa visione agostiniana della storia nei tempi pagani, Cincinnato appare tra gli eccellentissimi che, operando non sanza alcuna luce de la divina bontade furono strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio; nel secondo si tratta piuttosto di rilevare un atto eccezionale di onestà civile volto a quel bene comune che è il fine del diritto, per argomentarne la legittimità dell'Impero romano. Nell'un caso e nell'altro il particolare del ritorno all'aratro ha fatto supporre che, pur facendo riferimento al passo della Monarchia Livio e Cicerone (che non ne fanno parola), si seguisse piuttosto il racconto di Floro; sempre che non attingesse invece, come pensa il Vinay (comm. alla Monarchia, p. 137) a remote e generiche reminiscenze scolastiche.
L'anno appresso (Anno di Roma 296 secondo Catone, 298 secondo Varrone) fatti consoli Cajo Nauzio per la seconda volta, e Lucio Minuzio ebbero per qualche tempo guerra domestica su' diritti civili con Verginio e li compagni di lui, tribuni già da quattro anni. Ma poi venendo alla città guerra da' popoli intorno, e paura che le togliessero il regno; presero con trasporto l'evento come dalla fortuna: e fatti i cataloghi militari, divise in tre parti le milizie interne e confederate, e lasciatane una in città sotto gli ordini di Fabio Vibolano; essi alla testa delle altre uscirono immantinente, Nauzio contro de' Sabini, e Minucio contro degli Equi. Imperocchè questi due popoli s'erano in quei giorni ribellati ai Romani: li Sabini manifestamente tanto che si erano avvanzati sino a Fidene, città dominata da Roma, che ne era distante quaranta stadj; laddove gli Equi serbavano colle parole i diritti dell'ultima pace; facendola nelle opere da nemici, con movere guerra ai Latini, confederati di Roma, quasi nel trattato di pace non avessero inchiuso ancor essi. Comandava l'armata loro Gracco Clelio, uomo intraprendente, che avea renduto quasi regio il potere arbitrario di cui era stato adornato. Costui andò fino al Tuscolo, città pigliata e saccheggiata nell'anno antecedente dagli Equi, che poi ne furono espulsi dai Romani, e rapì dalle campagne quanti ne sorprese, uomini in copia e bestiami, guastandovi i frutti, buoni già da ricoglierli. E giunta un'ambasceria dal Senato per intendere le cause per le quali guerreggiavano contro gli alleati de Romani quando erasi di fresco giurata pace con essi, né frattanto era occorso disturbo alcuno tra i due popoli, e dovendo questa ammonir Clelio a dimettere i prigionieri che avea di quelli, a ritirare l'armata, e subire il giudizio su le ingiurie o danni fatti ai Tuscolani; colui s'indugiò lungamente senz'abboccarsele, come impedito dalle occupazioni. Alfine quando gli parve tempo di ammettere l'ambasceria, e quando i membri di essa ebbero espresso gli annnnzj del Senato; egli soggiunse: Mi meraviglio, o Romani , come voi per dominare e tiranneggiare, teniate per nimici tutti gli uomini, anche senza esserne offesi. Voi non permettete che gli Equi si vendichino de' Tuscolani, senza che ciò si concordasse nella pace, firmata con voi. Se dite che abbiamo oltraggiato e danneggiato voi; vi rintegreremo a norma de' patti: ma se venite a chieder conto sui Tuscolani, niente vale, che a me parliate, o val quanto parliate con quella pianta; e frattanto additò loro un faggio, che prossimo frondeggiava. I Romani, così vilipesi da colui non cavarono subito, abbandonandosi all'ira, gli eserciti: ma replicarono con un altr'ambasceria, e mandarono i Feziali che chiamano, uomini sacrosanti, per attestare i numi, che essi porterebbero, necessitati, una guerra legittima, se non erano soddisfatti; e dopo ciò spedirono il console colle milizie. Gracco all'intendere che i Romani venivano, levò l' esercito, e lo portò più addietro, seguendo passo passo i nemici. Egli volea ridurli in luoghi da vantaggiarsene, come addivenne. Imperocché tenendo in mira una valle cinta da monti, non sì tosto i Romani vi s'internarono, egli voltò faccia, e si accampò su la strada che conduce fuori di quella. Seguì da questo, che i Romani misero il campo non dove il volevano, ma dove la circostanza lo permetteva. Ivi nè era facile il pascolo pe' cavalli, per essere il luogo chiuso da monti ripidissimi e nudi; né facile, dopo aver consumato quelli che portavano, procacciare a se' stessi gli alimenti dalle terre nemiche, o mutare il campo, standogli a fronte i nemici, e proibendone l'uscita.
Risolverono dunque usar la violenza, e cacciaronsi avanti per la battaglia: ma respinti e feritivi largamente si richiusero fra le loro trincee. Clelio inanimato dal buon successo li circondò con fosse e steccati, su la fiducia che premuti dalla fame gli si renderebbero. Giunta in Roma la notizia di ciò. Quinto Fabio lasciatevi comandante, scelse il fiore ed il nerbo dei suoi militari, e li spedì per soccorrere il console, sotto gli ordini di Tito Quinzio, uomo consolare, e questore. Mandò nommeno lettere a Nauzio che tenea l'esercito dei Sabini, dichiarandogli la situazione di Minucio, e chiedendo che venisse immantinente. E colui, fidato il campo ai luogotenenti, venne con altri cavalieri in corso rapidissimo a Roma. Entratovi di notte cupa, consultatovisi con Fabio e con altri seniori su ciò che fosse da fare, e concedutosi da tutti che abbisognavasi di un dittatore, nominò a tal grado Lucio Cincinnato: e ciò fatto, rivolò nel suo campo. Fabio, il comandante di Roma spedì deputati che assumessero Quinzio al comando. Per avventura egli faceva allora alcuna delle campestri sue cose. Veduta la moltitudine, e sospettando che a lui ne venisse, prese abito più conveniente, e ne andò per incontrarla. Giuntole da vicino, gli appresentarono cavalli magnificamente bardati, e le scuri co' ventiquattro fasci, e la veste di porpora, e le altre insegne, ornamento un tempo dei re. Saputo che Roma eleggevalo dittatore, non solo non si rallegrò di un tanto onore, ma conturbaudosene disse, adunque per le mie occupazioni perirà pure il frutto di quest'anno, e noi tutti ne avremo grande il disagio. Dopo ciò recatosi a Roma confortò su le prime i cittadini con discorso al popolo da empierlo di belle speranze. Poi convocati tutti i giovani dalla città e dalla campagna, concentrate le truppe ausiliarie, e nominato maestro de' cavalieri Lucio Tarquinio, ignobile per la povertà, ma nobilissimo in arme, uscì coll'esercito riunito: e giunto al questore Tito Quinzio che lo aspettava, prese pur le sue schiere, e ne andò sul nemico. Appena ebbe considerata la natura dei luoghi ov'erano gli accampamenti collocò parte dell'armata nelle alture onde precludere agli Equi i sussidj ed i viveri, e ritenendo seco le altre milizie le avanzò con ordine di battaglia, Clelio punto non si sbigottì, perocchè nè la sua gente era poca, né poco il cor suo nella guerra, e lo scontrò nel suo giugnere, e ne sorse una pugna ostinata. Era già decorso buon tempo, e li Romani come cresciuti fra le arme rinovavansi ognora al travaglio, e la cavalleria soccorrea pronta ove erano i fanti in pericolo, Gracco dunque sopraffattone, si ritirò nel suo campo. Quinzio allora lo cinse con alto steccato e torri frequenti, e quando seppe alfine che penuriava de' viveri, lo investì con assalti continui nel suo campo, ordinando a Minucio che uscisse dall'altra parte. Esausti gli Equi di viveri, disperati di un soccorso, e stretti per ogn'intorno dall'assedio, furono necessitati a prender forma di supplichevoli, e spedire a Quinzio per la pace. E colui replicò che la darebbe, e lascerebbe agli Equi salva la persona, se deponessero le arme, e passassero ad uno ad uno sotto giogo: tratterebbe però qual nemico Gracco il capo della guerra, e gli altri consiglieri della rivolta. E qui comandò che gli recassero tali uomini in ferri. Umiliavansi gli Equi a tutto; quando egli ordinò, che giacché aveano senza esserne offesi previamente, soggettato e derubato il Tuscolo città confederata di Roma, essi consegnassero a lui Corbione, città loro perché ne facesse altrettanto. Prese tali risposte partirono gli oratori, e dopo non molto tornarono traendo con sé Gracco e i compagni incatenati. Essi poi cedute le arme, e lasciate le trincee, ne andarono sotto giogo, come era il volere del dittatore, a traverso del campo romano. Consegnarono Corbione, e con restituire i prigionieri ottennero solamente che salvi prima ne uscissero gli uomini ingenui.
Quinzio ricevuta la città, comandò che le prede più riguardevoli'si trasportassero in Roma, concedendo che le altre si dispensassero tra i soldati venuti con esso, e tra gli altri spediti prima con Quinzio il questore; e soggiungendo, che ai soldati rinchiusi col console Minucio avea dato amplissimo dono, quando li rivendicò dalla morte. Ciò fatto, obbligando Minucio a dimettersi dal suo grado, si ripiegò verso Roma, e ne menò trionfo luminoso, più che tutti i duci menato lo avessero, perché in sedici giorni da che avea preso il comando, avea salvato l'esercito amico, disfatto l'altro floridissimo de' nemici, saccheggiata la loro città, messavi guarnigione, e conduceva seco in catene il capo, e gli altri primari di quella guerra. Faceva soprattutto meraviglia che avendo ricevuto quel magistrato per sei mesi non sel tenne quanto concedeva la legge: ma convocata la plebe, e ragionatole delle cose operate; lo depose. E pregandolo il Senato che prendesse quanto volea delle terre, degli schiavi, delle prede conquistate colle armi, e pressandolo che vivificasse la tenuità sua con ricchezza giusta, che egli possederebbe gloriosissima, come tratta colle proprie fatiche dal nemico, ed offerendogli amici e parenti, amplissimi doni, e pregiando più che tutto adagiare un tal uomo. Egli, lodatane la cortesia, non prese nulla, ma si ricondusse nel picciolo suo campicello, ed antepose ad una splendida vita la vita sua travagliosa, nobilitandosi per la povertà, più che altri non sogliano per Populenza. Dopo non molto, Nauzio l'altro console vinse in battaglia i Sabini, e scorsa e derubata gran parte delle loro campagne, trasse in patria l'esercito.